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CORONAVIRUS FASE 2 – Autodichiarazione spostamenti e Protocolli aziendali anticontagio: tra dubbi e incertezze

Oggi inizia la cosiddetta Fase 2, quella della riapertura parziale e graduale delle attività economiche, nonché dell’allentamento ai limiti di spostamento personali.

In entrambi i contesti, quello produttivo e quello individuale, emergono criticità operative e/o interpretative.

L’autodichiarazione pubblicata sul sito del Governo e del Ministero dell’Interno non riepiloga correttamente le casistiche di spostamento consentite dal DPCM 26/04/2020, che come notorio ha ammesso la visita ai congiunti - neo categoria pseudogiuridica, introdotta con un atto amministrativo! - nonché l’attività motoria e/o sportiva da praticare individualmente. In tale parossismo regolatorio, ove anche i cani hanno il diritto alla loro passeggiata fisiologica, permane il divieto assoluto di svolgere ogni attività ludico-ricreativa, anche al di fuori dei parchi giochi, che restano ancora chiusi; in sintesi è vietato essere bambini!

Ritornando all’autodichiarazione va evidenziato che, se la visita ai congiunti rientra nei motivi di necessità per espressa previsione dell’art. 1 lett. a) del DPCM 26/04/2020, l’attività motoria e/o sportiva costituisce causale autorizzata a se stante, ma dimenticata nel nuovo modello di autocertificazione. Il consiglio, nel caso si incappi in un controllo durante a tale attività o durante un tragitto a ciò finalizzato, é di dichiarare espressamente, annotando sui righi liberi dell’autocertificazione, lo spostamento a fini di attività motorio/sportivo; è assolutamente da evitare l’indicazione delle altre causali prestampate, poiché nell’evenienza di un successivo controllo risulterebbero non veritiere con tutte le note conseguenze sanzionatorie.

La ripresa delle attività economiche è vincolata al rispetto delle regole anticontagio per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19, così come definite nelle linee guida dei Protocolli allegati al DPCM 26/04/2020 ai sensi dell’art. 2 c. 6. Il mancato rispetto di tali regole comporta l'irrogazione delle sanzioni amministrative (da 400 euro a 3.000 euro) di cui all’art. 4 D.L. 19/2020, salvo che il fatto non costituisca reato ex art.452 (diffusione colposa di epidemia), oltreché della sospensione immediata dell’attività per un periodo da 5 a 30 giorni.

Le aziende, pertanto, nel riaprire le loro attività dovranno attenersi a tali indicazioni o recependo formalmente il Protocollo generale del 24/04/2020 o quelli più specifici per i settori dell’edilizia e del trasporto oppure stilandone uno aziendale che recepisca tali linee guida.

In merito il Ministero dell’interno ha diramato in data 2 maggio alle Prefetture una circolare
con cui dispone di organizzare controlli nelle aziende per verificare il rispetto e l’applicazione dei contenuti dei Protocolli allegati al DPCM 26/04/2020, i quali sostanzialmente dettagliano norme di buon senso abbondantemente diffuse dagli organi di informazione e a tutti noti.

Riguardo al Protocollo del 24/04/2020 vi sono, peraltro, due articoli, sui quali l’assenza di chiarezza lascia margini discrezionali di interpretazione forieri di potenziali contenziosi.

L’art. 12, titolato “Sorveglianza sanitaria/Medico competente/RLS”, contiene un passaggio sibillino in cui si legge “alla ripresa delle attività è opportuno che sia coinvolto il medico competente per le identificazioni dei soggetti con particolare fragilità e per il reinserimento dei soggetti con pregressa infezione da COVID 19”. L’espressione usata nel Protocollo - “è opportuno” - da un punto di vista lessicale e normativo, non configura sicuramente un obbligo; tuttavia va considerato che il datore di lavoro è responsabile ai sensi dell’art. 32 Cost., dell’art. 2087 c.c. e dell’art. 81 D.lgs 81/2008 delle misure di tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Ne consegue che un eventuale contagio del lavoratore, in mancanza di una piena attuazione delle raccomandazioni del Protocollo, potrebbe configurare responsabilità aziendale, sebbene permanga in capo al dipendente contagiato il non facile onere probatorio di dimostrare che il contagio sia avvenuto in azienda. In un’ottica prudenziale, pur in assenza di un obbligo vero e proprio, vuoi per l’espressione utilizzata (“é opportuno”), vuoi soprattutto per la fonte amministrativa dell’atto, il DPCM, è comunque - questa volta sì - opportuno per le motivazioni innanziddette coinvolgere il medico competente. Ovviamente, nel caso l’azienda non rientri nell’obbligo della vigilanza sanitaria e dunque non abbia nominato il “medico competente” nessuna attivazione in tal senso dovrà essere effettuata.

Ancora più ambiguo è l’articolo 13 del Protocollo titolato “Aggiornamento del protocollo di regolamentazione”, con il quale ai sindacati sembrerebbe assegnato il diritto di entrare in azienda per verificare “l’applicazione e la verifica delle regole del protocollo di regolamentazione”. A tal proposito il sindacato, secondo il testo del Protocollo, agisce tramite le Rappresentanze Sindacali Aziendali (RSA), ove costituite, o il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (RSL), oppure in loro assenza - fatto abbastanza usuale nelle piccole aziende - tramite costituendi comitati territoriali.

Il Protocollo conferisce ai sindacati un arbitrario e illegittimo potere di ingerenza nell’attività imprenditoriale dell’organizzazione aziendale, la quale può essere limitata esclusivamente da un atto legislativo, non certo amministrativo, qual è il DPCM 26/042020, il quale tra l’altro richiama un protocollo tra parti private.

A chiarimento di tale incongrua ed illegittima previsione va considerato che la gestione della sicurezza aziendale, configurata con il coinvolgimento anche dei sindacati dal D.lgs 81/2008, è incentrata sui rischi riconducibili all’attività lavorativa, mentre nel caso di specie il rischio pandemico è globale con provenienza esterna al contesto lavorativo. La diffusione del COVID-19, investendo l'intera popolazione, non è connotabile con un un indice di rischio determinato e determinabile dal datore di lavoro, il quale non può che rimettersi alle valutazioni effettuate dalle istituzioni, dandovi puntuale applicazione, ma sempre nell'ambito della propria autonomia organizzativa imprenditoriale. Non essendovi, pertanto, alcun obbligo di aggiornamento del Documento di Valutazione Rischi (DVR), per i motivi innanzi esposti, è totalmente arbitraria la pretesa di coinvolgere il sindacato in una funzione di tipo ispettiva totalmente estranea agli istituti giuridici oggi vigenti.

In conclusione per il datore di lavoro è sufficiente procedere all’adozione sostanziale delle misure di prevenzione anticontagio, richiamando formalmente i Protocolli allegati al DPCM 26/0 4/2020 con una dichiarazione o meglio una corrispondenza informatica, ove si precisa che tali linee guida sono fatte proprie ad esclusione di ogni coinvolgimento sindacale nella loro applicazione, trattandosi di potere organizzativo che fa capo direttamente all’imprenditore.

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